Quando il destino dispone le circostanze in modo diverso da quello che vorremmo, o che le nostre aspettative pretenderebbero come ottimale, viene fuori un’inaspettata capacità d’adattamento alle mutate condizioni tale da cambiare le convinzioni e la visione delle cose fino a quel momento accreditata come l’unica possibile, quella giusta e immutabile, quella dogmaticamente vera. Così mi vango a trovare al vecchio policlinico di Modena, glorioso ai suoi tempi per aver retto negli anni cinquanta la palma di ospedale più grande d’Europa, in una situazione quasi da ospedale da campo. Il reparto di pediatria, sito al settimo piano, è stato evacuato al piano terra, causa terremoto, nell’unico ambiente disponibile: il vecchio reparto di pneumologia da anni trasformato in parte in aule della facoltà di medicina e da ambulatori e attualmente in ristrutturazione, quindi circondato dai “castelli” messi in opera dalle imprese edili che vi lavorano. In queste piccole stanzette attrezzate per altri usi hanno sistemato due letti dove ce ne stava uno solo o quattro dove normalmente potevano starcene due. I corridoi, affollati di barelle adibite a piani di lavoro dove vengono preparati i medicinali e disposti le apparecchiature diagnostiche e d’emergenza, sono dimezzati nella loro larghezza e si passa in fila indiana; tutto questo avvolto dal suono soave dei martelli pneumatici, dei verricelli che trasportano sacchi di cemento su e giù per i piani e delle betoniere col loro incessante ruotare. Il tutto abilmente orchestrato da robusti e abili muratori. Ebbene tutto questo, tutti questi disagi, sono resi non solo sopportabili, ma addirittura piacevoli, da un personale sanitario di una straordinaria umanità e competenza; così grande è stata la professionalità di questi instancabili lavoratori della sanità che, il giorno in cui è stato dimesso, mio figlio si è sentito in dovere di scrivergli una lettera di ringraziamento. Sarà forse che ormai le professioni mediche sono diventate appannaggio delle donne (in tutta la settimana non visto un medico o un infermiere maschio, tranne il primario), o sarà un sentito sentimento missionario della propria attività, ma i sorrisi abbondantemente elargiti ai piccoli pazienti, il rispetto che veniva loro tributato e la maniacale attenzione ad alleviare il dolore sia fisico che psichico, mettevano anche noi genitori nella migliore condizione mentale per rincuorare e rendere più sopportabile la degenza dei nostri figli. Avevano trasformato quella specie di bunker in un parco giochi; le grigie pareti tappezzate dalle immagini dei personaggi Disney e dei Looney Tunes, i carrelli con i medicinali non più di freddo acciaio inox ma di coloratissima plastica, le divise e i camici con Titti, Topolino, Paperino e altri personaggi ricamati sulle tasche; ma sopratutto lo spirito di informale familiarità con cui il personale sanitario si rivolgeva a figli e genitori: i bambini venivano chiamati per nome o soprannome se gradito, noi genitori venivamo chiamati mamma e papà (papà e Maria venite che facciamo la visita; mamma e Alfredo adesso c’è la punturina poi giochiamo a campana). La stragrande maggioranza dei piccoli degenti era straniera; arabi per la maggioranza e il restante suddiviso tra neri, italiani e slavi. E qui ho visto le donne arabe togliersi il velo dalla testa per la notte nonostante la presenza di altri uomini e i loro mariti non dire nulla, le ho viste allattare sempre incuranti della presenza dei mariti e dei padri dei bambini ricoverati, ho visto tutti questi stranieri comunicare tra loro in italiano, uniti da una lingua straniera. Non avevamo tavoli o tavolini, non ce n’era il posto, quindi chi ancora stava mangiando prendeva sul suo letto i vassoi di chi aveva finito per sgomberare il letto e consentire al piccolo di sdraiarsi. Quanta differenza dai tempi di Beirut, perchè qui la sofferenza è causa di solidarietà?
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